L'ultima notte del mondoIntroduzione di Alberto Bruzzese>
Questo è il mondo che c'è là fuori.
Il mondo che si impiglia negli sguardi di chi sa vederlo, scrutarlo; ma non da lontano, non dalla serratura, è il mondo di chi sa caricarselo sulle spalle o prenderlo sottobraccio, di chi sa camminarlo e respirarlo.
Mi fa pensare al film "Smoke" di Wang e Auster, dove un tabaccaio ogni mattina, da dieci anni,
alle otto in punto, fotografa l'incrocio davanti al suo negozio e tutto quello che ci finisce dentro.
Tutti i santi giorni, da dieci anni, nello stesso punto, e anche lì quello che rimane impigliato è il mondo che c'è là fuori. Facile. Se riesci a vederlo.
Note dell'autore
Alcune poesie del libro sono rimaste nel cassetto per trentacinque anni, altre per pochi mesi. Dovevano far parte di progetti mai portati a termine o modificati in seguito.
Per le poesie è diverso che per la narrativa, scaturiscono all'improvviso, espressioni d'uno stato d'animo, d'un sentimento che ha un bisogno impellente di trovare un'uscita. Le poesie sono un elisir per la salute mentale, nonostante molti poeti siano stati considerati pazzi, e han ben poco a che fare con la politica e con il buon senso comune.
Pur nella loro eterogeneità vi troverete dei temi comuni quali la guerra, la società malata, l'impossibilità di relazioni autentiche. Ma soprattutto il tema che da il titolo al libro: la sensazione della fine incombente che crea l'urgenza dell'arte.
La poesia che dà il titolo del libro l'ho scritta nella notte di S. Silvestro 2001. Pochi mesi prima, l'11 Settembre, due aerei carichi di passeggeri, avevano abbattuto le torri gemelle di New York, lasciando tra le macerie migliaia di morti innocenti. E proprio nei giorni in cui scrivevo il presidente americano Bush aveva dato avvio ai bombardamenti in Afghanistan, iniziando così quella guerra infinita che sarebbe proseguita di lì a breve in Iraq. Avevo netta la sensazione che iniziava una fase nuova e terribile della storia che avrebbe presto irrimediabilmente coinvolto anche il nostro mondo tranquillo e ingrassato. Era la stessa sensazione che mi aveva preso nei primi anni 90, con lo sbarco dei primi profughi albanesi sulle coste pugliesi, accolti con curiosità e grandi tele di plastica per affrontare il freddo della notte. Anche allora, pochi mesi prima, c'eravamo lasciati alle spalle una guerra, sempre in Iraq, la prima dal dopoguerra che coinvolgeva in qualche modo l'Italia. Ed è la stessa sensazione che pochi mesi fa mi ha portato a scrivere "La Cattedrale di Babele".
Non mi piacciono le poesie troppo "poetiche", carine, piene di natura, prati, cieli e fiori. Le poesie sgorgano direttamente dall'anima non per piacere ma per colpire, prima chi le scrive e poi il lettore. Se la lettura del libro vi lascerà dell'amaro in bocca e qualche certezza in meno vorrà dire che avrà avuto una qualche utilità.